Chi è genitore sa che questo è il mestiere più difficile tra i mestieri. Lo è sempre stato, ma oggi ne abbiamo consapevolezza.Quando nasce un bambino, ai nostri giorni, spesso c’è un “clan di adulti” che lo aspetta, che lo accoglie, tutti pronti a vivere con lui l’entusiasmante percorso della sua crescita. E con il nuovo nato nasce una nuova gioia, nuove organizzazioni di vita, si rinnovano i ruoli, le competenze, le adeguatezze.In genere, fino al primo anno di vita, tutto sembra andare per il meglio: s’impara a cambiare il pannolino, a fare il bagnetto, a metterlo a nanna, a soddisfare i suoi imperiosi bisogni. Qualche gesto impacciato all’inizio, la sensazione che possa rompersi, ma la ripetizione quotidiana di queste azioni porta presto ad una competenza operativa.Non appena il neonato acquista le sembianze di persona, si affacciano mille interrogativi rispetto alle sue richieste: è meglio dare o negare, quando dirgli sì e quando no, quante ore di TV posso concedergli, è giusto punire, è bene parlare di tutto davanti a lui, è proprio vero che uno schiaffo ogni tanto è educativo, è d’aiuto fare i compiti con o per lui, e se sì, come mai quando lo faccio litighiamo sempre, cresce bene se in casa non ci sono inibizioni e pudori, può vederci nudi quando siamo in bagno, e la porta del bagno va lasciata aperta o si deve chiudere a chiave, quali sono le regole più giuste, e se lo traumatizzo?Per non parlare dei dolci e delle patatine fritte da concedergli e in quale misura…E così, per la prima volta, ai genitori sembra che le drammatiche notti insonni dei primi mesi di vita del tenero frugoletto, che la guerra con le prime pappe, che le difficili traduzioni dei suoi pianti siano stati uno scherzo in confronto al tarlo di questi interrogativi.In questi anni, sempre più numerosi i genitori mi hanno rivolto queste ed altre domande, tutti concludendo che il mestiere di genitore è proprio difficile.E’ vero, ma non è impossibile! Ci si può raccapezzare!Intanto concediamoci delle attenuanti: è anche la nuova realtà sociale che lo rende tale. Viviamo da tempo in famiglie adulte dove c’è scarsa presenza di bambini, quindi di loro accadimento e di esperienza nel settore. Quando nasce un progetto coniugale spesso si pensa ai figli come a qualcosa che arriverà naturalmente e che naturalmente diventeremo genitori. Ma allevare un bambino, aiutandolo a diventare un adulto sano, equilibrato e felice non è poi così naturale. E’ un compito articolato di offerta incondizionata personale, in continua evoluzione, che cresce insieme al bambino stesso, portando gli adulti a continui cambiamenti. La nascita di un bambino ci costringe, spesso, a chiederci che cosa significa per noi adulti essere sani, equilibrati e felici. E da queste riflessioni è inevitabile che ci chiediamo che cosa pensa un bambino, che cosa è più giusto per lui, che cosa lo rende felice o meno, e qual è il ruolo che noi genitori abbiamo in questo processo.E’ legittima, quindi, la ricerca dei genitori di avere quante più informazioni possibili sulla crescita psicofisica del bambino, sugli stili educativi e sul ruolo genitoriale. Il dubbio di un genitore è la salvaguardia della tutela di un bambino.Facciamo un esempio. Una domanda che mi pongono spesso le mamme è questa: “Come mai il mio bambino di due anni e mezzo, fa sempre i capricci, si adombra facilmente, non è mai contento e basta un nonnulla per farlo arrabbiare? Qualsiasi cosa gli dica risponde no e fa sempre esattamente il contrario di quello che io gli chiedo. Se vado in cucina mi è sempre attaccato e apre proprio i cassetti dove ci sono oggetti pericolosi. Prende sempre le pentole e, se non sto attenta, si tira dietro i piatti. Comincio a pensare che me lo faccia apposta, che ce l’abbia con me! Eppure ho lasciato il lavoro quando è nato per stare con lui, per farlo vivere bene. Non lo lascio mai solo. La mattina mi sveglio con i buoni propositi di non arrabbiarmi, di essere più paziente con lui: invece finisce sempre che lo devo sgridare, che piange e che ci roviniamo la giornata. Dove sbaglio? Sono io che non funziono o mio figlio ha dei problemi?”In questa unica domanda ci sono almeno cinque risposte. Ma affrontiamone intanto una: l’irrequietezza e lo scontento (contrario di quella felicità di cui parlavamo?) del bambino.Noi adulti siamo abituati ad organizzarci la giornata. Qualunque lavoro facciamo, qualsiasi sia il momento di crescita della nostra vita siamo abituati a svegliarci con un progetto in testa: andare a lavorare, rimanere in casa ad organizzare la famiglia, prepararci per un viaggio, organizzare le vacanze. E bene lo sanno, quanto difficile sia vivere senza un progetto quotidiano, gli adulti che entrano in pensione!I bambini, al pari degli adulti, hanno bisogno di dare un senso alla loro giornata. Il bambino in questione ha due anni e mezzo: cammina, comunica verbalmente e non, ha capacità di relazione, non va ancora alla scuola materna, trascorre prevalentemente le sue giornate con la mamma o con la baby sitter, le serate con la mamma e il papà, di tanto in tanto frequenta i nonni, non ha fratelli o sorelle. Una situazione abbastanza tipica in Italia. Frequenta altri bambini? Pochi e poco: sono tutti con le loro mamme, con le baby sitter o con le nonne, in appartamenti o in case con un po’ di giardino. Anche questo abbastanza tipico. Qualche volta si va ai giardini pubblici, dove – raccontano le mamme – invece di approfittare della situazione, i bambini sembrano litigare piuttosto che socializzare. E poi, alle mamme sembra che le altre mamme non abbiano molta voglia di scambi di visita. E anche questo…abbastanza tipico!E allora cosa fa questo nostro bambino appena sveglio? Come noi pensa: “Cosa faccio oggi?” La mamma lo lava, gli fa le coccole, lo veste e gli dice: “Adesso amore stai buono qui che mamma mette a posto in casa.” Il bambino, che ama tanto la sua mamma e che per lei farebbe qualsiasi cosa, pensa che ce la farà a farla contenta: starà buono lì, così la sua mamma gli vorrà ancora più bene. E lui ha un estremo bisogno di sapere che la sua mamma lo ama tanto. Ci prova. Dopo un po’, non sa perché, ma avverte una sensazione fastidiosa (quella che noi adulti chiamiamo noia); si gira su se stesso, poi si risiede (entra in agitazione motoria). Guarda la sua mamma e pensa: “Lei sì che ha delle cose interessanti da fare. Tutte quelle pentole, i piatti…”. E così prova ad imitarla, probabilmente danneggiando oggetti, facendo confusione, interrompendo continuamente la mamma nello svolgimento delle sue occupazioni, mettendo in disordine ciò che la mamma ha ordinato, fino al momento della caduta di un piatto accompagnata dall’urlo spazientito della mamma. Fine del gioco. Divieto di toccare gli oggetti sacri domestici. Rimettersi buono e tranquillo.
Proviamo a tradurre i significati di questi comportamenti.Il bambino avverte il bisogno di avere i tempi organizzati in qualcosa. Non sa cosa fare. Si guarda intorno e vede che la mamma sa cosa fare: si è organizzata con piatti e pentole e letti da rifare. Decide di fare altrettanto. E poi lavare il bagno è affascinante! Ma è maldestro, gli oggetti della cucina spesso non sono alla sua portata e il bagno, chissà perché, con lui si allaga sempre.La mamma si è organizzata la mattinata: metto a posto in cucina e imposto il pranzo, sperando che il mio angioletto abbia una buona mattinata e me lo permetta; poi esco a comprare le poche cose che mi mancano, torno a casa, finisco di preparare da mangiare in tempo utile per il rientro di mio marito e pranziamo.Ambedue hanno l’esigenza di un progetto di giornata: la mamma sa organizzarselo, il bambino no, perciò la imita maldestramente.Aiutiamolo!La stanza del bambino dovrebbe essere un vero e proprio laboratorio, piena di cose utili per giocare-lavorare. Al contrario, nelle nostre case, spesso i giocattoli del bambino sono sparsi in tutte le stanze: un angolo in soggiorno per farlo stare buono mentre si vede la TV o si stira, un cassetto in cucina per riuscire a sbrigare in pace le faccende domestiche e, perché no, un angolino anche nella stanza da letto dei genitori. Il pezzo forte resta comunque la magica cesta nella sua stanza, c’è di tutto: pezzi di costruzioni, le sorprese degli ovetti Kinder, il braccino di uno sfortunato bambolotto rotto, una tazzina… E allora il bambino cosa fa nella sua stanza quando gentilmente gli chiediamo di svagarsi almeno dieci minuti, il tempo di riuscire a finire di mettere a posto i letti o di fumarsi in pace una sigaretta in cucina? Va nella sua stanza, rovescia la cesta, tocca un po’ tutto, non gioca con niente, esce annoiato dalla sua stanza. Cerca innervosito la sua mamma.E’ bene ribadire: la stanza di un bambino dovrebbe essere un vero e proprio laboratorio dove il piccolo possa giocare-lavorare. Sì, perché per il bambino il gioco è come per noi adulti il lavoro, gli consente di esprimere creatività, di costruire percorsi logici, di attivare attenzione e concentrazione, di risolvere problemi, tutte azioni alla base del concetto di intelligenza. Perché ciò si realizzi occorre però metterlo nelle condizioni ottimali. Innanzitutto via tutte le ceste dalla stanza del bambino: sono soltanto contenitori di oggetti spesso inutili e, soprattutto, non consentono al bambino di individuare l’ordine percettivo, di vedere cioè chiaramente che oggetti ha a disposizione per sbrigliare la sua fantasia. Sì, invece, a mensoline attaccate alle pareti alla sua altezza, sulle quali poggiare pochi giocattoli divisi per categoria: su una mensola le macchinine, su un’altra i peluches, su un’altra ancora una confezione di costruzioni, ecc. Ovviamente non deve mancare un tavolino sul quale porre quadernoni, matite, colori, libretti.Immaginate per un attimo un bambino che entra nella sua stanza alla ricerca di un gioco da fare: si guarderà in giro, seguirà l’ordine percettivo dei giocattoli posti sulle mensole, farà una rapida scelta mentale, prenderà la categoria di giocattoli che in quel momento lo ha stimolato di più, inizierà un gioco. Questo, magicamente, gli permetterà di intrattenersi nella sua stanza per un tempo maggiore rispetto al passato. Perché?Adesso sa cosa fare!Ma quali giocattoli scegliere per un bambino nei primi tre anni di vita? Tutti i giocattoli che riproducono gli oggetti di lavoro di mamma e papà: pentoline, piatti, tazzine, posate, fornelli, l’asse da stiro, la lavatrice, lo stendibiancheria, martelli, chiodi, quaderni, libri, pennarelli, bambole, bambolotti, insomma tutto ciò che riproduce la vita familiare! Ricordate che nei primi tre anni di vita del bambino non c’è una differenziazione tra giochi maschili e giochi femminili, per cui proporre le bambole ai maschietti non mette in pericolo la loro futura identità sessuale: a questa età le bambole e i bambolotti vengono utilizzati dal bambino prevalentemente per riprodurre il mondo di figure umane che vive.Se poi vi fermerete con lui dieci minuti al giorno per insegnargli ad usare i giocattoli, lentamente, a partire dai vostri stimoli, il bambino imparerà ad allargare la sua azione di gioco autonomamente, accettando sempre di più di rimanere da solo nella sua stanza a giocare.Ricordate inoltre che i giocattoli non si comprano perché ce lo impone la pubblicità, ma per un progetto di gioco: se per finire la costruzione di una casa con i Lego ci accorgiamo che manca una porta, o due finestre, progetteremo di comprare i pezzi che occorrono al bambino per finire il suo progetto di gioco; quindi li segneremo, insieme a lui, sulla lista della spesa: pane, latte, detersivo, finestre Lego, pennarello rosso, caffè. Ecco soddisfatto il principio del progetto di gioco!Adesso nella stanza del bambino c’è tutto ciò che gli occorre per ubbidire alla mamma quando gli dice: “Perché non vai un po’ a giocare in stanza tua?” Siete riusciti a creare le condizioni ottimali per consentirgli di organizzarsi il tempo con il suo lavoro: il gioco. Non solo: con gli strumenti che gli avete fornito, con la creazione di questo laboratorio il bambino è anche in grado di riprodurre, di drammatizzare scene di vita familiare, relazioni affettive e dinamiche domestiche, azioni di gioco indispensabili per uno sviluppo affettivo infantile equilibrato, conosciuto in psicologia con il nome “gioco della bambola”.Ma questa è un’altra storia e ne parliamo un’altra volta.Sì, il mestiere di genitore è difficile, ma non impossibile!Ricevere di tanto in tanto una pillola di saggezza genitoriale fa bene alla salute del bambino e dei genitori perché aiuta a chiarirsi le idee, a comportarsi in modo adeguato, a riuscire a tradurre i segnali dei bambini, a sentirsi genitori capaci e forti nel proprio ruolo.Certo il momento migliore per sapere, per informarsi, per conoscere sarebbe durante la gravidanza, quando si è più ricettivi, più disponibili ad accogliere le informazioni utili a diventare bravi genitori. Una sorta di teoria prima della pratica, proprio come a scuola. Purtroppo il nostro sistema sanitario, nonostante gli sforzi mostrati negli ultimi anni, non è ancora riuscito a ben organizzarsi in materia e spesso la preparazione al parto e la stessa nascita non vengono gestiti in nome dei bisogni delle persone ma in nome dei bisogni delle strutture.Ma non è mai troppo tardi: un genitore che si interroga, che si mette in crisi, in qualsiasi momento della crescita del figlio, è un genitore saggio e responsabile, è un adulto attento che traduce i bisogni di un bambino chiedendo aiuto nel momento in cui si accorge di averne necessità.Al bisogno, richiedete al vostro psicologo di fiducia di prescrivervi le pillole di saggezza genitoriale!Buona genitorialità!
Credo di non sbagliare nel descrivere come caratteristica la scena che si presenta ogni giorno davanti alle scuole dei nostri figli. Dopo una faticosa ricerca di un posto libero per parcheggiare l’auto e qualche chiacchiera con gli altri genitori davanti ai cancelli della scuola, finalmente suona la campanella e incontriamo lo sguardo del nostro bambino che, quasi sempre, sorridente ci corre incontro. Gli prendiamo lo zaino, la mano e raggiungiamo l’auto. Questo se nostro figlio frequenta la scuola elementare. Se invece è uno studente di scuola media o di scuola superiore, lo aspettiamo in auto e – come da sua prescrizione – non manifestiamo alcuna emozione particolare per l’incontro perché … gli altri guardano e, si sa, un adolescente deve dimostrare al mondo che è diventato grande e quindi …ha smesso di essere figlio. Una volta in auto, qual è la domanda più frequente che un genitore fa al proprio figlio appena uscito dalla scuola? … “Com’è andata?” E qual è la risposta più frequente che un figlio dà? … “Bene!” E da quel momento…silenzio stampa: neanche in presenza di un legale, si riescono ad ottenere ulteriori informazioni! Il genitore più ingenuo inizierà un dialogo del tipo: “Ma sei stato interrogato?”, “Sì”; “E come è andata?”, “Bene!”; “Ma cosa ti ha chiesto?”, “Tutto”; “Come credi sia andata l’interrogazione?”, “Non lo so!”. Il genitore più scaltro invece si accontenterà della risposta ricevuta per istinto di conservazione, per evitare, cioè, una frustrazione che ha già sperimentato. Ma perché i ragazzi fanno così? Rispondiamoci con una domanda. Quando noi torniamo a casa dopo una giornata di lavoro, cosa ci piace fare? Metterci in tuta, una capatina in bagno, guardare la posta con calma, insomma riprendere i contatti con la realtà domestica. E se appena aperta la porta di casa trovassimo qualcuno con il dito puntato e il viso preoccupato pronto a chiederci: “Com’è andata oggi a lavoro?”, ce la sentiremmo di raccontare delle pratiche che abbiamo sbrigato, dei conflitti con i colleghi e della rabbia per le ferie non concesse nel periodo richiesto? In quanti avete detto sì? Credo pochissimi, perché abbiamo bisogno di disintossicarci, cioè di svuotarci per poi ricaricarci. Ecco, per i nostri ragazzi è la stessa cosa! Per educazione o per evitare una predica, a domanda, risponderanno anche, ma non otterremo nulla di più di un generico “E’ andata bene!”. “Ma allora quando possiamo parlare con loro di scuola?” – mi chiedono spesso i genitori? C’è un tempo per tutto, e va assolutamente rispettato. Una volta usciti da scuola, i ragazzi hanno bisogno di scaricarsi, di riprendere i contatti con l’ambiente domestico, con il clima familiare, con il rituale del pranzo o della merenda, con la loro stanza, con gli oggetti lasciati la mattina, con la musica, con il cane, con il computer, con Dawson’s Creek. E’ solo quando il pomeriggio entrano in stanza per fare i compiti che, raggiungendoli, diventa significativo chiedere: “Cosa avete fatto oggi a scuola? Come è andata? Che compiti hai per domani? Ti è tutto chiaro? Qualche difficoltà? Come pensi di affrontarla? Posso esserti d’aiuto”. Ovviamente non così a raffica come sono state scritte, ma alternate alle sue risposte, seguendo una cronologia di dialogo. E’ il momento in cui i nostri ragazzi sono rientrati nella concentrazione necessaria per ricapitolare la mattinata di impegno e per prepararsi allo studio pomeridiano. E l’intervento dei genitori diventa pertinente, ascoltato e risposto. Inoltre, è un’utile occasione per guardare insieme i quaderni, per conoscere gli argomenti trattati a scuola, per farsi raccontare le dinamiche di classe, le relazioni con gli altri. Difficile? No! Strategia genitoriale! Grado di difficoltà: 4. E a proposito di scuola: come regolarsi con i compiti? E’ giusto aiutarli, farli al posto loro, o cosa? L’ideale è aiutarli sin da piccolissimi a raggiungere una autonomia scolastica, utile a sviluppare negli studenti attenzione, concentrazione, senso di responsabilità e stima di sé.Come fare? Arriviamoci per passi. Passo n. 1 - Innanzitutto insegniamo ai nostri figli a saper gestire i tempi di una giornata, al fine di permettere loro di svolgere tutte le attività che, spesso, confusamente hanno in mente di fare: giocare, fare sport, studiare, vedere gli amici, ecc. Insieme a loro fate un cartellone sul quale, dopo averli contrattati, segnerete i tempi di ogni attività. Facciamo l’esempio di un pomeriggio: ore 13.00 pranzo; dalle 14.00 alle 16.00 attività ludiche (TV, giardino, computer, giocare a… ); ore 16.00 compiti, fino a …, con pausa per merenda; ore 19.30 cena. Per i pomeriggi con l’uscita sportiva (nuoto, palla a volo, danza, ecc.) l’orario delle attività ludiche viene contratto o si stabilisce l’anticipo dei compiti in altri pomeriggi più liberi. E’ fondamentale che siano i ragazzi a stabilire la scaletta di orari da scrivere sul cartellone, al fine di stimolare l’assunzione di responsabilità. In questo compito il ruolo del genitore è di stimolo e di supporto alle strategie elaborate dal figlio nella suddivisione degli impegni (“Credi di farcela il giovedì con tutti questi impegni che hai segnato? Ci sono altre possibilità”). Il cartellone va attaccato alla parete della sua stanza e nel tempo dovrebbe sostituire le frasi dei genitori del tipo: “Allora, sei ancora davanti alla TV? Quando vai a studiare?”. Passo n. 2 - E’ bene abituare i ragazzi a studiare nella propria stanza. Soprattutto i bambini che frequentano la scuola elementare spesso preferiscono studiare in cucina dove la presenza della mamma li fa sentire in compagnia. In realtà tentano di superare il loro impegno delegando alla mamma la risoluzione di problemi, a volte anche minimi, per i quali dovrebbero compiere uno sforzo di attenzione. Ciò che un genitore può fare, anzi è auspicabile con bambini ancora non abituati all’autonomia scolastica, è accompagnarli nella stanza, guardare insieme a loro i compiti da fare, farsi spiegare come intendono svolgerli aiutandoli verbalmente nelle incertezze, augurare loro buon lavoro, rendersi disponibili alla fine – e solo alla fine – di ogni materia svolta per una visione congiunta e uscire dalla stanza. Ogni richiamo per ogni minima difficoltà va scoraggiato, ricordando che devono provare una soluzione autonoma e rimandando solo a dopo, a materia conclusa, un possibile aiuto di chiarificazione. Tra una materia e l’altra sono ammessi contatti di aiuto. Cercate però di sollevare i problemi, non di risolverli subito al posto loro. Aiutatevi con domande del tipo: “Quali altri modi conosci per risolvere questa difficoltà? Prova a dirli. Cosa ricordi di quello che ti ha spiegato la maestra? Hai cercato sul quaderno per trovare un problema simile a questo? Come lo avete risolto in classe?”. Queste domande aiutano i bambini ad elaborare strategie di risoluzione dei problemi, anche in assenza del genitore; sono utili al bambino per associare significativamente tutte le azioni scolastiche compiute, da ciò che ha fatto ed appreso in classe a ciò che fa e impara a casa con i compiti.
Passo n. 3 - Se durante lo svolgimento dei compiti vostro figlio s’innervosisce e minaccia di non fare più nulla se non lo aiutate di più, non perdete la pazienza: rischiate di mostrarvi impotente ai suoi occhi e capirà che basta insistere un altro poco e voi cederete risolvendogli tutti i problemi. Invitatelo, piuttosto, a fare una pausa in cucina, preparandovi una merenda fuori programma durante la quale raccontare, magari, di qualche vostro momento scolastico difficile da piccoli, conclusosi con un personale successo rispetto alla difficoltà incontrata. Una volta rinfrancati, abbracciatelo, fategli un incoraggiamento, accompagnatelo nella sua stanza e tornate alle vostre incombenze. Quando vostro figlio ha finito di fare tutti i compiti operate una supervisione generale, riconoscete i suoi meriti, non denigratelo per gli errori, fategli preparare lo zaino per il giorno successivo e … di scuola non si parla più fino al pomeriggio successivo. A proposito del termine compiti. Gli studenti dividono il lavoro scolastico da compiere a casa in: compiti, con i quali intendono gli elaborati scritti, gli esercizi; e in studio, ciò che si deve imparare con esercizio di ripetizione verbale: storia, geografia, regole grammaticali. Ricordatelo quando chiedete ai vostri figli se hanno fatto i compiti. Loro vi risponderanno sì, e non avranno detto una bugia se non hanno studiato il capitolo di storia, perché voi non avete chiesto se hanno studiato! Allenateli e allenatevi, quindi, ad usare il termine compiti per tutto il lavoro scolastico da svolgere a casa. Passo n. 4 – Non denigrate mai il lavoro svolto dagli insegnanti di vostro figlio, soprattutto in sua presenza, né sottoforma di battute, né con critiche aperte, né con allusioni. Gli studenti hanno bisogno di fidarsi dei loro insegnanti per poter frequentare la scuola con piacere. Una opposizione genitoriale nei confronti di un insegnante può creare nei ragazzi sentimenti conflittuali: apprezzare il proprio insegnante può essere vissuto da vostro figlio come una sorta di tradimento nei vostri confronti se avverte la vostra ostilità, fino al punto di sentirsi costretto a scegliere tra voi e il suo insegnante. Dall’altra, il vostro risentimento per un insegnante può diventare una scatola nella quale scaricare tutto: la scarsa voglia di impegnarsi da parte dello studente, la frustrazione per un risultato non raggiunto, la demotivazione per una materia di studio. E’ vero anche, però, che vanno sempre ascoltate le lamentele dei figli riferite ad eventuali atteggiamenti poco obiettivi di un insegnante, o vissuti come tali, perché i ragazzi hanno bisogno di sentirsi ascoltati e creduti dalla propria famiglia. In un primo momento si cercherà di capire insieme a lui quali sono gli elementi che lo hanno portato a tale giudizio nei confronti del suo insegnante, cercando di indirizzarlo verso ragionamenti e osservazioni quanto più possibile obiettivi, rinforzandolo in pensieri e comportamenti positivi e, se necessario, correttivi. Se il problema persiste, si cercherà di affrontarlo con l’insegnante stesso, con atteggiamento di massima fiducia e di collaborazione, cercando di costruire un rapporto aperto e proficuo: gli adulti deputati alle azioni educative dei bambini e dei ragazzi hanno bisogno di consultarsi costantemente e se il comportamento dei genitori è di reale e consapevole desiderio di collaborazione difficilmente un insegnante si comporterà come uno studente, scaricando cioè sull’allievo tutte le responsabilità del problema. Qualora dovesse comunque succedere, trasformare tale frustrazione in una filosofia di saggia e produttiva tolleranza, sia genitoriale che scolastica, è un grande insegnamento di maturità ai ragazzi che ci guardano vivere: in tal caso si opererà un rinforzo sul ragazzo ragionando con lui sulle differenze di personalità degli adulti e sulla loro disponibilità all’ascolto. E’ difficile? Vale la pena tentare! Grado di difficoltà: 8.Proviamo a riassumere